Patto di non concorrenza quando è valido e quando no?
La crisi economica che ha interessato il mondo del lavoro negli ultimi anni ha contribuito a diffondere il concetto sempre più diffuso di flessibilità. Sempre più spesso, infatti, i ridotti budget stanziati dalle aziende per far fronte a nuove assunzioni portano le stesse a scegliere persone che siano già in possesso di comprovate esperienze, le quali però, quando è il momento di cambiare la propria posizione lavorativa, si trovano a fare i conti con l’esistenza di ‘patti di non concorrenza’ con l’attuale loro azienda, a causa dei quali sono costretti a dover rinunciare a nuovi potenziali posti di lavoro e, con essi, a condizioni retributive favorevoli.
Proprio al fine di evitare che ciò possa accadere, è sempre utile essere a conoscenza di quali sono le caratteristiche che deve avere un patto di non concorrenza per essere considerato valido ed efficace e questo sia in ottica aziendale sia per il singolo dipendente. L’art. 2125 Cod. Civ. stabilisce che il ‘patto di non concorrenza’ si configura come “un contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive, in virtù del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una determinata somma di denaro (o altra utilità) a favore del lavoratore e questi si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, a non svolgere attività concorrenziale con quella del datore di lavoro”.
L’interesse alla sua sottoscrizione, dunque, non può ravvedersi esclusivamente in quello del solo datore di lavoro, ma deve incontrare anche la volontà del lavoratore, il quale avrà diritto al compenso pattuito; solo allora potrà parlarsi di patto di non concorrenza (!)
Si tratta di un patto, di natura contrattuale e come tale produttivo di effetti obbligatori, che detta limiti ben più rigidi rispetto a quanto previsto dall’art. 2596 Cod. Civ. in tema di limiti contrattuali alla concorrenza. Infatti, se quest’ultimo impone il divieto di compiere attività di concorrenza con quella dell’imprenditore durante la regolare vigenza del rapporto di lavoro, il patto di non concorrenza ex art. 2125 Cod. Civ. estende tale divieto anche – per non dire soprattutto –per il periodo successivo alla conclusione del rapporto.
Quello che però un dipendente spesso non sa è che l’efficacia di un patto di non concorrenza (a pena di nullità) è subordinata alla coesistenza di alcuni elementi c.d essenziali, quali:
- la forma scritta (ab susbstantiam);
- limitazione nell’oggetto;
- limitazione territoriale;
- limitazione di durata;
- previsione di un compenso.
Se per quanto attiene la forma, la stessa deve necessariamente essere scritta, più difficile appare comprendere cosa la legge intende quando prevede una limitazione dell’oggetto del patto (2.).
Lecito ed efficace, secondo la normativa civilistica e la costante Giurisprudenza è quel patto che vieta al dipendente di svolgere in futuro anche attività diverse dalle mansioni svolte durante il rapporto e per l’intero settore produttivo di sua competenza, purché residui la possibilità per il lavoratore, con la propria professionalità, di occuparsi in altri settori.
(3.) Delimitazione territoriale del patto. Anche in questo caso è opportuno compiere una valutazione sulla estensione territoriale del patto, il quale avrà come oggetto, a seconda della tipologia del rapporto di lavoro a cui lo stesso è collegato, un’area territoriale più o meno ampia (provinciale, regionale, nazionale o anche comprensiva di più stati). Affinché l’estensione del patto sia da considerarsi ‘bene apposta’ e dunque rispettosa di quanto previsto dalla normativa, la stessa deve essere ben delimitata, non potendo in alcun modo essere oggetto di libera interpretazione.
Anche in questo caso, come per quanto attiene l’oggetto del patto, la validità dell’estensione territoriale del patto va analizzata e contemperata con il concreto e legittimo diritto del dipendente di reperire nuova occupazione, ben potendo l’area indicata risultare ‘eccessiva’ la stessa può essere considerata legittima e dunque non tacciare di nullità il patto se il dipendente è comunque in grado, date le conoscenze e il know how acquisito, di rimpiegarsi in altro distinto settore merceologico.
In punto durata è solo il caso di riferire come la legge ha imposto limiti massimi, oltre il quale il patto è da ritenersi inefficace con conseguente applicazione del limite massimo imposto dalla normativa. Il limite è di 3 anni nel caso di patto rivolto a personale non dirigenziale e di 5 anni in caso di dirigenti. Perché si possa parlare di patto di non concorrenza è altresì necessario che a fronte degli obblighi assunti del dipendente vi sia anche la previsione di un compenso da parte dell’azienda.
La normativa non ha tuttavia ritenuto opportuno disciplinare né eventuali soglie per quanto attiene il quantum da versare né il momento in cui le somme vadano versate al dipendente, lasciando all’autonomia pattizia delle parti la loro regolamentazione.
Vi sono patti in cui la corresponsione del concordato avviene mensilmente in uno con la busta paga, in altri invece all’atto della cessazione del rapporto in un’unica soluzione, sono casistiche entrambe consentite dalla giurisprudenza, la quale tende sempre a evitare di entrare e dirimere controversie nel dettaglio delle previsioni pattizie, fatta eccezione per i casi in cui le stesse risultino ampiamente squilibrate e prevedano compensi irrisori a fronte di ingenti oneri e obblighi posti al dipendente.